PICCOLE STORIE… … dall’aldila’

Succede così, se sei distratto non ci fai nemmeno caso.

Succede che in un tempo in cui tutti o quasi siamo pervasi dal terrore di un virus maligno, qualcuno pensa a proteggere altri oltre che se stesso. Lo fa senza grossi sforzi, nessun eroismo, solo una piccola idea: compriamo mascherine per difendersi dal virus e le facciamo avere a chi non se le può comprare.

Niente di eccezionale. Vogliamo solo comprare mascherine antivirus per le famiglie meno abbienti di Gaza.
Si prepara un progettino per la raccolta fondi. Si usa il principe dei social per diffonderlo, ma… Stop! pochi minuti dopo la pubblicazione, il principe dei social, la creatura del giovane Zuckenberg, vale a dire Facebook, fa scattare la censura. Il progetto non può essere pubblicato perché qualcuno lo ha segnalato come offensivo. Tutto chiaro, no!?!

Ma la creatura di Zuckenberg è dialogante, ti consente di dire la tua, di spiegarti, e poi, dopo che ti sei spiegato e pensi che tutto sia tornato a posto  ti risponde che no, non c’è niente da fare, il tuo post è stato segnalato da qualcuno che l’ha trovato offensivo e quindi inutile insistere. Basta. Censurato.

Allora ti chiedi ma cosa può esserci di offensivo nell’aiutare un esiguo numero di palestinesi sotto assedio  a proteggersi da un micidiale virus?

Beh, mentre ci chiediamo perché la creatura di Zuckenberg scivola così in basso da prestarsi a capricci di tale arroganza, ci viene in mente che Zuckenberg è ebreo.
Ebbè? Che c’entra? Mica uno perché è ebreo deve essere per forza disumano! Ne conosciamo diversi di ebrei splendidi e anche di molto critici verso la disumanità di Israele, e allora?
No, sarà per colpa di qualche robotizzazione del sistema! Sì, deve essere così: qualcuno segnala e il sistema censura.
Ma intanto, facendo i conti dei versamenti ottenuti in tre giorni, scopriamo che la creatura di Zuckenberg non ci fa fatto grosso danno perché la raccolta avanza alla grande.

All’improvviso arriva uno strano messaggio, quasi un messaggio dall’aldilà. Ci viene offerto un versamento per conto di chi materialmente non può farlo perché è da poco uscito dal mondo materiale. Cioè  ci arriva la mail di una persona che ci chiede se oltre al suo versamento può farne uno a nome di chi non è più sulla terra ma che lo avrebbe fatto.

Beh, certo, si può, ma non abbiamo medium che possano fare un’operazione bancaria per  chi parla dall’aldilà e quindi scegliamo la via più banale del versamento “alla memoria di”. Di chi? Vogliamo sapere due cose, il nome della persona che ha dettato questo desiderio e un fiore che questa persona amava in modo particolare per poterglielo dedicare.rose rosa

La nostra donatrice dall’aldilà si chiamava Elina B., e con la donazione alla sua memoria si potranno comprare circa 1.000 mascherine! Questa storia così piccola ci dice che Gaza, nonostante tutte le ingiustizie che la coprono è comunque visibile, ed è perfino nel pensiero di chi non c’è più grazie a chi ne coltiva la memoria.

Elina amava in particolare le rose, e allora ne prendiamo un mazzo delle più belle e gliele offriamo, ma ci aggiungiamo anche una viola del pensiero che ci sta bene, no?

viole del pensiero

È Gaza che ringrazia e che un giorno potrà di nuovo coltivare e vendere liberamente i suoi fiori, quelli che insieme alle fragole rappresentano alcune delle sue eccellenze, ma che l’assedio criminale di Israele le impedisce di esportare.

Un abbraccio a Gaza e da Gaza, che un giorno sarà di nuovo libera in una libera Palestina.

GAZA. Progetto mascherine anti-virus

 

SOSTEGNO ALLE ATTIVITÀ DI LOTTA ALLA DIFFUSIONE DEL CORONA-VIRUS A GAZA

Localizzazione: Striscia di Gaza
Beneficiari: 1) popolazione economicamente svantaggiata della Striscia
2) Ditta Maraky di Soad Kalub, azienda artigianale di sartoria
specializzata in produzione di camici, tute ospedaliere,
mascherine chirurgiche e simili.
3) Piccole ditte produttrici di saponi nella Striscia di Gaza.

Obiettivo immediato:fornire dispositivi sanitari di protezione individuale di
base contro il contagio da virus
Obiettivo finale: sostenere lo sviluppo dell’azienda Maraky creata 4 anni fa  a Gaza dalla signora Soad Kalub dopo che la precedente azienda, localizzata a Rafah, era stata completamente distrutta dall’aggressione israeliana del 2014 denominata “margine protettivo”.
L’azienda, grazie alla tenacia della signora Soab Kalub, si sta lentamente affermando e dà lavoro e formazione professionale a un gruppo di donne gazawe liberandole dalla dipendenza dai sussidi internazionali;
Modalità d’azione: non potendoci recare personalmente in Palestina dato il
blocco sanitario, ci affidiamo a referenti di provata fiducia per la realizzazione del progetto che seguiremo on line.
Budget: 7.000 (settemila) euro
Modalità di finanziamento: libere sottoscrizioni di soci e donatori volontari
Tempi di realizzazione: 40 giorni a partire dal 1°aprile 2020

PREMESSA e MOTIVAZIONI.
Il 30 marzo di due anni fa, Giornata della Terra, iniziava la Grande Marcia del Ritorno lungo il confine terrestre della striscia di Gaza con l’obiettivo di denunciare al mondo l’inadempienza da parte di Israele verso la Risoluzione Onu 194/1948 relativa al DIRITTO AL RITORNO nelle proprie terre dei profughi palestinesi e l’illegale assedio della Striscia, sperando che il mondo agisse in nome del Diritto.
Nelle manifestazioni che si sono ripetute ogni venerdì per quasi due anni, Israele ha dato ai suoi cecchini la possibilità di esercitarsi su bersagli umani, uccidendo e ferendo un numero impressionante di manifestanti inermi. Il mondo, quello delle istituzioni, al quale si chiedeva di agire non ha agito, se non con pallidi cenni di disappunto. La situazione resta drammatica. Continua a leggere

Oddio, san Valentino pure qui! però…..

Anche oggi piove. Ha ripreso a piovere da qualche giorno e fa anche freddo. Però devo andare per forza a Gerusalemme e affronto la pioggia. C’è anche nebbia lungo la strada. Ma tanta 16732174_10212307472426484_1777984722_onebbia. Più che a Milano. Poi però, miracolosamente, appena il bus arriva al check point DTO, subito prima del tunnel lungo la strada Betlemme-Gerusalemme, la nebbia si dirada. Proprio qui, dove sono i soldati  israeliani. Di botto.  Che coincidenze strane avvengono su questa terra! Il bus si ferma e salgono due eletti del Signore armati come sempre. Strana fatalità! Roba che a fissarcisi un po’ viene davvero da chiedersi se Dio non abbia un occhio di riguardo per 16731326_10212307472946497_1838517572_o-1questa gente che – atea o credente che sia – lo riconosce come proprio agente immobiliare e lo piazza, rigorosamente senza effige, of course, ma ugualmente e inequivocabilmente identificabile in ogni logo che abbia a che vedere con Ia propria pretesa identità territoriale.

Comunque, coincidenza o meno, la nebbia si è dissolta. Ora passiamo accanto alla collina Cremisan e possiamo vedere a distanza l’insediamento di Gilo che verrà unito ad Har Gilo, altrettanto illegale, rapinando altre terre tra le più belle e fertili della Palestina.

Il viaggio prosegue. Solo 12 chilometri ma ci vuole un po’.  Intanto penso che oggi, 14 febbraio, è san Valentino. Giornata abbastanza fasulla ma, vuoi per far girare l’economia, vuoi per “la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude” come recita un bel verso di D’Annunzio, anche qui viene festeggiato.

E’ già qualche giorno che orsetti rossi, abat jours rosse, oggetti vari robandiera-frontessi e bandiere rosse invadono il suq di Betlemme e le sue strade. Le bandiere poi sono ovunque, anche dentro l’università. Non sapevo il perché di tutto questo rosso e ho chiesto a uno studente. Mi ha risposto semplicemente così: “George Habash” e s’è a16731364_10212307473426509_1197573857_o-1nche stupito che io sapessi chi fosse e, detto per inciso, lo apprezzassi! Sì, ma che c’entra Habash con gli orsi e le abat jours? Ovviamente c’era stato un equivoco, lui parlava solo delle bandiere, io invece chiedevo il perché di tutto quel rosso!

L’ho capito ieri. Guardando bene tutti i pupazzi, le abat jours, le scatole e scatolette ho visto che c’era sempre un cuoricino. Ecco qui! La globalizzazione porta sia le zucche di Halloween che i cuori di san Valentino ovunque! Ma qui sc16731792_10212307473266505_799039750_o-1opro qualcosa di più. Lo scopro oggi perché essendo il giorno di san Valentino mi arrivano un po’ di foto-messaggi. E’ una cosa tutta locale. E’ dovuta alla situazione specifica, ai tanti cuori spezzati davvero, non per “la favola bella” dedicata a qualche Ermione, ma per l’agire dei colleghi di quegli stessi eletti armati che sono saliti sul bus al check point DTO fuori Beit Jala.

La cosa specifica della Palestina che mi arriva in forma di foto riguarda ragazzi che forse stasera avrebbero festeggiato emozioni e sentimenti che a 20 anni sono il motore della vita e che invece il loro buffo orsetto rosso lo vedranno deposto sulla pietra che copre il loro corpo o davanti ai ritratti che li ricordano. Sarà un dolore ammantato di dolcezza ma sarà un dolore. Poi, senza abbandonare né il volto, né il ricordo di questi ventenni, o diciottenni, o a volte meno che sedicenni  stroncati dal fuoco degli occupanti, la vita riprende a scorrere, anche nel loro nome e nel loro – a volte involontario – sacrificio.

E così,16732079_10212307472546487_633127209_o-1  anche se la festa di san Valentino nel mio paese mi sembra essere piuttosto fasulla, qui mi pare che possa assumere un valore diverso: è la vita che comunque continua, tanto che gli auguri investono tutti, compreso chi è soltanto percepito come amico di questo popolo. E allora che dire? Un po’ obtorto collo e chiudendoli in uno specifico assolutamente specifico mi associo agli auguri e vado a festeggiare il compleanno di un giovane amico palestinese che è nato proprio come oggi, ma una trentina di anni fa. Eccomi Bilal, arriverò sul tardi (o forse domattina) ma arriverò anch’io.

TERRITORIO e IDENTITA’. La Palestina attraverso il suo ambiente naturale.

Ciao, dopo parleremo dell’olivo, ora mi rivolgo a chi segue la rubrica Territorio e identità sull’agenzia di stampa NenaNews, ma anche a chi segue altre rubriche come Cibo e identità e anche a chi non segue rubriche ma si aggiorna su NenaNews, una delle pochissime fonti oneste circa il Medio Oriente e la Palestina in particolare. Nena news è come i fiori … scusate eh, se mi rifaccio al tema di questo blog, cioè “fiori di Palestina” : se non ha acqua non cresce, anzi rischia di brutto. E se Nena si essicca chi ci dice cosa succede in Palestina? Marrazzo? Molinari? I cronisti di Repubblica o del Corriere?

Insomma, se riusciamo a mandare un contributo avremo la possibilità di essere ancora informati. Sennò la vedo dura. Anche se 10 o 20 euro sono pochi, se tutti i ventimila lettori di Nena volessero metterceli si arriverebbe a 200.000 euro o a 400.000. Insomma una bella boccata d’ossigeno con poco sforzo individuale. Poi, chi si schifa di mandare 10 o 20 euro può pure mandarne 100, certo, non avrà molti compagni di bonifico, però lo può fare! Ecco i dati: conto corrente Intestato a: NENA NEWS – Associazione di Promozione SocialeIBAN: IT 43 T 02008 05286 000103061447.  Ed ecco il link completo, annaffiamo NenaNews, dai!! http://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fnena-news.it%2Fsostieni-il-lavoro-di-nena-news%2F&h=GAQFS6OQZ&s=1

E ora l’articolo sull’olivo. Scritto un mese e mezzo fa e già pubblicato da Nenanews.

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Olivi plurimillenari dell’orto dei Getzemani. Gerusalemme.

E’ il momento di parlare dell’olivo. E’ il momento in cui la fatica della raccolta si è trasformata in gioia nell’assistere alla mutazione in liquido prezioso e denso di quei milioni di piccole drupe che hanno segnato le civiltà del Mediterraneo.

Forse nessun albero come l’olivo ha visto il passaggio della coltura in cultura e il diventare l’una parte integrante dell’altra.

Nella sua forma originaria, cioè prima dell’antichissimo addomesticamento, l’olivo  si presentava in forma selvatica, tuttora  esistente e comunemente definita “oleastro”, capace di produrre drupe più piccole e più amare dell’olivo domestico.  La sua origine allo stato selvatico è rintracciabile nel Vicino Oriente, da dove si sarebbe estesa in tutte le aree del Mediterraneo.

Il primo addomesticamento sarà ad opera degli agricoltori siriani, ma la leggenda sicuramente più affascinante circa la sua origine  ce la regala la Grecia con uno dei suoi miti. L’olivo sarebbe infatti un regalo di Atena, la dea del sapere e della saggezza. Un regalo che viene preferito al regalo offerto da Poseidone, il dio del mare. Poseidone offriva una fonte di acqua salata e un cavallo da battaglia, quindi un simbolo di guerra. Atena invece offre un simbolo legato al nutrimento, alla terra, alla vita, quindi alla pace. E questo simbolo l’olivo lo porta da sempre. Lo porta ancor oggi perfino in Palestina dove gli olivi palestinesi distrutti dal giorno dell’auto-proclamazione dello Stato di Israele ad oggi pare si aggirino sui 3, forse 4 milioni.

Chiunque abbia avuto a che fare con un oliveto, anche piccolo, può capire il rapporto che s’instaura tra questi alberi e chi li coltiva, e  quindi può capire appieno il dolore provato da chi ha visto mutilare, estirpare o abbattere queste piante che tuttora sono per ogni palestinese il  simbolo dell’attaccamento alla terra e della sua sacralità. L’olivo è stato cantato, illustrato, coltivato, amato e, per quanto possibile, protetto fino a diventare l’albero simbolo per antonomasia della resistenza.

Proprio qui, in Palestina,ci sono esemplari  pluricentenari e millenari, contorti, sofferti, ma bellissimi. Israele quelli ora non li distrugge più. Ha capito che sono una ricchezza e allora ogni tanto, in tutta impunità, ne espianta qualcuno e se lo porta via, oppure ci fa una splendida figura offrendolo in dono a qualche paese straniero, come ad esempio l’olivo centenario che fa bella mostra di sé a Roma, di fronte alle antiche colonne dei fori imperiali, con tanto di tanga in cui si legge l’omaggio di quello Stato  al popolo romano. Ma Israele ha meno di 70 anni e l’olivo donato ne ha molti di più, quindi è stato donato a Roma un albero palestinese probabilmente sottratto a dei fellain che non hanno potuto impedire l’illegale confisca.15942374_10211963817835334_1457769329_n

Ma torniamo all’albero per osservarlo dal  punto di vista botanico ed erboristico.  Sì, erboristico, perché non molti lo sanno, ma l’olivo ha delle ottime proprietà officinali.

Il suo nome scientifico è olea europaea, anche se le sue origini sono asiatiche. Ama il sole e i terreni sciolti, la sua chioma è sempreverde e proprio dalle foglie e dalle gemme si ricavavo rimedi erboristici di grande efficacia per contrastare l’ipotensione. Oltre a tinture madri, a gemmoderivati e a tutto ciò che si può acquistare in erboristeria, una preparazione officinale domestica efficace come ipotensivo ed ipoglicemico è il semplice infuso di foglie giovani. Quindici foglie in un quarto di litro d’acqua bollite per 5 minuti. Ne risulta una bevanda particolarmente amara ma estremamente efficace, utilizzabile anche come cura prolungata in quanto non ha tossicità. Due infusi al giorno aiutano il colesterolo e contrastano diabete ed ipertensione, quest’ultima considerata causa prima di ictus ed infarti.

La Palestina antica, ovvero la terra di Canaan, prima che venisse invasa dagli ebrei guidati da Giosuè, era già ricca di oliveti, tanto che lo stesso Giosuè, secondo la Bibbia, disse al suo popolo, allora ancora  formato da pastori nomadi: “vi ho offerto un paese che non avete coltivato e potete mangiare i frutti di viti e olivi che non avete piantato”.

Ma nulla è eterno e il passaggio di tanti popoli e tanti diversi dominatori su questa terra lo dimostra. L’olivo però resiste e nonostante espianti e distruzioni è ancora un simbolo per quella terra e per ogni palestinese.

Nell’antichità il suo olio è stato usato per scopi sacri oltre che per alimentazione e cura. Ungere un corpo con l’olio d’oliva significava dargli sacralità, essere introdotti in qualche modo nella sfera divina. Questo valeva per gli ebrei, tanto che la Bibbia narra di come Samuele dovrà ungere Davide su indicazione del Signore facendone il suo prescelto. Lo sarà per i cristiani, Gesù Cristo infatti è “l’unto” del Signore come attesta l’attributo nominativo derivante dal greco Kristos, cioè “unto”, ma lo era anche per gli egiziani e per i greci e per romani. Nel VII secolo d.C. anche Maometto parlerà dell’olivo come “l’albero benedetto…..il cui olio illuminerebbe anche se non toccasse fuoco” e lo farà nella surat sulla luce dove si legge che “Dio è la luce dei cieli e della terra….” .

Albero benedetto, simbolo di pace, di rigenerazione e di resistenza, albero che, parafrasando lo storico contemporaneo Fernand Braudel unisce due civiltà del Mediterraneo separatesi nel corso dei millenni per religioni, costumi e bevande, ma unite da quell’originaria coltura dell’olivo che ne ha fatto sorgere la comune civiltà, quella che, per citare un altro storico, non contemporaneo ma di 2500 anni fa, fece “emergere dalla barbarie i popoli del Mediterraneo”. Così infatti scriveva Tucidide nel V secolo a.C.

Le leggende, i miti, l’uso prezioso dei suoi frutti, usati già nella forma selvatica come attesta il più antico ritrovamento, risalente a circa 6.000 anni fa sulle coste dell’antica terra di Canaan, le coste da cui partivano i Fenici con il carico di quel che loro chiamavano “oro liqui9781784530716do”,   tutto questo infatti – per i simboli che viene ad assumere, per le leggi che sono state emanate a sua difesa già 2500 anni prima di Cristo, e per le creazioni letterarie e artistiche – unisce e trasforma la coltura dell’olivo come pianta nella cultura dell’olivo come simbolo identitario di una determinata civiltà.

Non a caso il più grande poeta palestinese, Mahmoud Darwish, intitolerà proprio  “Foglie d’ulivo” la sua prima raccolta di poesie e molti anni dopo definirà il suo sogno di libertà per il popolo palestinese
come un’immagine che sorge da un sasso circondato da due ramoscelli d’olivo.

Patrizia Cecconi
29 Novembre 2016

Come i cipressi di Betlemme.

La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.  Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.15879256_10211910369779166_1687576595_n

 

E qui, in zuhurfilistin, cioè tra i fiori di Palestina credo sia giusto lasciare un omaggio a monsignor Capucci. Siriano, nato nella bellissima e martoriata Aleppo e votatosi alla causa palestinese da sempre.  Potrei scegliere un albero da dedicargli
e parlare di lui attraverso le sue foglie ma non lo farò. Preferisco un omaggio diretto e immediato perché per questo grande vecchio uomo non provavo solo immensa stima ma anche un grande affetto.

Non metto le mie foto accanto a lui perché mi sembrerebbe quasi di usare la sua immagine per ingrandire la mia. Neanche potrò andare alla funzione religiosa che lo ricorderà, ma sarà solo l’assenza di un corpo in mezzo alle centinaia, forse migliaia che saranno presenti. Io ci sarò da lontano e mi commuoverò pensando a tutte le volte che col pollice mi benediva facendomi la croce sulla fronte e mi diceva “cara, grazie ecc. ecc.”. Lui che diceva grazie a me! Incredibile! Una volta, qualche anno fa, avevo provato a dirgli che sono atea, ma lui mi rispose che a Dio non importava, fece una risata forte e mi benedì lo stesso. Da allora mi sono sempre presa la benedizione in silenzio e con un sorriso. Mai discutere con chi ha una convinzione forte come la tua ma contraria, non serve. Riduce il tempo destinato a fare cose più utili!

Fino a quando non è scoppiata la tragedia siriana, come lui stesso la chiamava, monsignor Capucci era amato e stimato da tutto il movimento pro-Palestina. Ma la “tragedia siriana” ha frammentato il movimento e per alcuni monsignor Capucci ha perso l’autorevolezza che gli spettava e che gli spetterà anche quando le sue ossa saranno diventate polvere.

Fino alle fine ha mantenuto la sua lucidità e non si è lasciato tirare la tonaca da chi voleva, sebbene in buonafede e vicino alle sue idee, “utilizzarlo” per mettere il suo peso sul piatto della bilancia siriana. La sua voce e le sue mani ormai erano tremanti, ma le sue analisi politiche precise e la sua volontà assolutamente ferma. Ad una parte di filo-palestinesi, quelli che hanno scelto di schierarsi con i cosiddetti ribelli, le sue idee non piacevano e qualche volta hanno scritto cose molto pesanti. Ma l’arcivescovo di Gerusalemme in esilio era al di sopra e il suo autentico amore per la Palestina era a sua volta al di sopra e invitava ad andare avanti.

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Fino a qualche anno fa per me monsignor Capucci era “solo” il grande uomo che si schierava per la giustizia come elemento indispensabile alla pace, e lui alla pace – quella giusta – mirava.

Quando nel 1974 venne arrestato perché nel suo portabagagli c’erano armi per la resistenza palestinese fu facile per i media (più o meno, ma sempre filo-israeliani) definirlo terrorista e amico dei terroristi. Erano i media dalla memoria corta e dall’interpretazione del diritto debole a dire così. Lo fanno ancora oggi. Del resto è facile definire terroristi e chiudere la questione coloro che si battono, senza avere un esercito, per liberare il proprio popolo dall’occupazione militare di eserciti ben riforniti.

Quando venne arrestato io avevo cominciato da poco a occuparmi di Palestina. Erano anni magici gli anni “70. Allora si credeva davvero che ogni lotta sarebbe stata vincente se il popolo l’avesse abbracciata con consapevolezza come aveva fatto per il Vietnam. Si pensava fosse solo questione di tempo. Non di molto tempo. Per monsignor Capucci si levarono tante voci a chiederne la liberazione. Anche se la narrazione israeliana ha sempre beneficiato della menzogna ben confezionata, erano anni in cui il popolo palestinese veniva percepito per quel che era: un popolo privato delle sue case, della sua terra e infine schiacciato dall’occupazione militare. Un popolo che, anche per il diritto internazionale, aveva ed ha il sacrosanto diritto a difendersi.

Dopo qualche anno Capucci venne liberato grazie alla mediazione del papa Paolo VI e condannato all’esilio. Io personalmente non lo conoscevo ancora. La prima volta che parlai con lui vis à vis deve essere stato una quindicina di anni fa.

Ricordo perfettamente il luogo e il momento dell’incontro. Lui aveva terminato un bellissimo discorso  e  aveva concluso ripetendo quello che era un po’ il leit motif dei suoi interventi e cioè qualcosa del tipo “io sono un uomo qualunque, rispetto il volere di Dio, è Lui che mi ha dato il compito di lottare contro il male e l’ingiustizia. Un giorno tornerò nella mia Gerusalemme”.

La sua Gerusalemme, invece, l’arcivescovo melchita non l’avrebbe più rivista.

A Ramallah, presso la casa delle “sorelle melchite” che vendono i più bei ricami tradizionali delle donne palestinesi, mi chiedevano sempre di lui e a volte mi davano dei ricami da portargli. Una frase ricorrente, detta senza convinzione ma come buon auspicio era sempre questa “il più bel regalo per noi sarebbe avere di nuovo qui monsignor Capucci, prova a portarcelo!”. L’ultima volta l’ha ripetuta anche abuna Giulio il quale, per il poco che lo conosco e per i discorsi fatti a quattr’occhi circa la situazione attuale, mi sembra appartenere alla stessa pasta di monsignore.

Ora purtroppo non lo aspetteranno più.15823581_10211880283627031_6758765518704702130_n

Sui nostri social sono apparse tante foto e tanti ricordi, stralci dei suoi discorsi e delle sue lettere. Parole di stima e di affetto. Poi qualcuno ha anche voluto ferire la sua immagine perché non ha condiviso le sue scelte circa la Siria. Poco male, immagino il viso di questo vecchio uomo, benevolo, un po’ ironico e un po’ severo e vedo il suo modo di strizzare gli occhi, fare un gesto con la mano e con la testa come a mandar via un soffio di fumo e dire, col suo accento di antico straniero: “va bene, va bene, non farci caso, loro credono così, noi intanto cerchiamo la pace e andiamo avanti”.

Cerchiamo la pace e andiamo avanti. E la pace non si cerca piegando la schiena all’oppressore, questo lo sapeva bene l’arcivescovo di Gerusalemme e infatti non l’ha mai piegata. Applicava il Vangelo sostenendo i deboli contro i potenti e sapeva che i mercanti dal tempio si cacciano con la frusta e non con gli inchini.

Ricordo un suo intervento a piazza del Popolo un po’ di anni fa, quando salutò dicendo “intifada fino alla vittoria”. Il giorno seguente giornali e giornaletti filoisraeliani si scatenarono contro il prelato che “inneggiava al terrorismo” ignari del fatto che intifada significa rivolta e che la rivolta contro l’oppressore è un diritto irrinunciabile non solo a livello morale, ma anche a livello di legalità internazionale, basterebbe leggersi la IV Convenzione di Ginevra!

Sì, abuna Hilarion, intifada fino alla vittoria! e visto che questo ricordo lo pubblico nel blog “fiori di Palestina” devo proprio cercare un fiore o un albero cui legarlo. Non per parlare di te attraverso l’albero, solo per legarlo al tuo ricordo.

Scelgo uno degli alberi che affacciano sul sagrato della Natività, a Betlemme, il cipresso.  Lo scelgo perché è il simbolo dell’eternità, così almeno secondo il mito greco che trasformò il principe Cyparisso in questo albero dall’assoluta verticalità. La punta va a toccare il cielo e le radici sprofondano nell’Ade, unendo eternamente la morte alla vita come avviene per ogni figura che vivrà per sempre nel ricordo di chi resta.

E prossimamente, per Territorio e identità, scriverò un articolo sui cipressi palestinesi. Che la tua anima riposi in pace, monsignor Capucci, mentre il tuo ricordo resterà con noi.

Patrizia Cecconi

4 gennaio 2017

Da Brescia a Gaza. Contaminazioni e suggestioni narrative.

9Vedere Brescia per la prima volta, ma averla nel cuore praticamente da sempre, è stato bello.

L’avevo conosciuta e studiata già alle elementari come “la leonessa d’Italia” per la sua eroica resistenza agli occupanti austriaci nella 1^ guerra d’indipendenza nel 1849. Resistenza stroncata, ma non annientata, con la fucilazione degli insorti (i Martiri di Belfiore) ordinata dal feldmaresciallo Radetzky che, da quando avevo una decina d’anni ad oggi, ancora mi chiedo per quale vergognoso motivo meriti di avere intestate le strade in molte città italiane. Sarebbe come se, una volta vinta la lotta contro l’occupazione, la Palestina intestasse delle strade a Sharon o a Begin o a quell’altro criminale di Netanyahu o magari a Moshe Dayan solo perché era un “grande” stratega.1

Tornando a Brescia, città studiata ancora alle superiori per la resistenza partigiana ai nazi-fascisti nella 2^ guerra mondiale, resistenza particolarmente eroica sapendo che la famigerata Repubblica Sociale Italiana –  quella che usava gli stessi metodi della coeva e criminale banda Stern di cui era esponente anche il futuro primo ministro israeliano Ytzahk Shamir – ebbe il suo quartier generale a Salò, proprio nella provincia bresciana. Continua a leggere

Riflessioni e ricordi recenti, assolutamente personali, che condivido con chi vuole leggermi.

“Una sola cosa il destino non può fare: distruggere i semi che sono finiti nella terra. Prima o poi germoglieranno”

Ieri ho lasciato la Palestina. Questi primi nove mesi del 2016 li ho passati prevalentemente qui e sono stshatti-campati mesi duri. A gennaio ho assaggiato il freddo gelido di Gaza visitando luoghi che dovrebbero far  vergognare e indignare ogni essere umano, ma luoghi in cui, nonostante tutto,  la dignità è molto spesso elemento portante della resilienza oltre che della resistenza e dove, se non hanno niente, neanche una stanza per ospitarti, ti offrono comunque tè e sorrisi.14182172_10210655693213036_729145346_n

Febbraio, marzo e aprile li ho  passati tra Cisgiordania e Gaza con qualche passaggio nella Palestina del “48 e ci sono stati giorni belli e anche bellissimi, e giorni duri. Ma anche i giorni duri sono stati sempre giorni privilegiati rispetto a quelli vissuti dal popolo palestinese. Sono stati pubblicati molti articoli in quel periodo e sono ancora leggibili negli archivi di Nena News, dell’Antidiplomatico e di Comune-info.

In quei mesi ha preso forma concreta il progetto Ibnatu Canaan che poi tra maggio e agosto si è stabilizzato. Il 23 giugno, nella terra che da terra qualunque vicino Jericho diventava “la” terra della futura oasi su cui stavo/stavamo lavorando-sognando è stato piantato il primo albero alla memoria di Fares Odeh. 4-fares-odehMa qualcosa, diciamo il destino, tramava nel buio e si sarebbe manifestato in tutta la sua capacità negativa solo più tardi.

A settembre ho vissuto i giorni più duri, quelli in cui la delusione  ha macchiato di un nero opaco e soffocante il mio ultimo soggiorno palestinese. Un nero rimasto sempre nel sottofondo delle mie giornate nonostante la presenza di amiche e amici simpatici sia palestinesi che italiani, alcuni di questi venuti apposta per conoscere con me la Palestina. Un nero opaco rimasto in sottofondo anche durante qualche “sfizio” palestinese come la giornata al Mar Morto con Meri, Abdallah, Nadia, Morad  e altri amici, 14494893_10209535463377172_3488087015746325187_n           o lo sfarzoso matrimonio palestinese in cui non sono mancate risate allegre,

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o la cena in casa Laham con ottimo “ousi fi jaja” preparato da Azizeh ousi, ed altri momenti da ricordare di una Palestina vissuta non in veste di militante ma di semplice amica di questo popolo.

Anche in questi momenti quel fondo cupo è stato il mio compagno costante. Perché? non solo per l’infamia continua dei militari occupanti, per le uccisioni quotidiane che non fanno più notizia.        Non fa notizia neanche il massacro costante che sta rendendo la Siria un lago di sangue, figuriamoci se può farne lo stillicidio di vite palestinesi per mano dell’esercito più criminale e più coccolato del mondo!

No, quel nero opaco che è stato con me in quest’ultimo periodo di vita palestinese, con punte di dolore acutissimo, era un lutto personale.

Un lutto, sì, perché a settembre si è consumata la morte prematura  di Ibnatu Canaan, il progetto al quale avevo dedicato tutte le mie energie e che doveva crescere come una figlia. Il progetto che avrebbe restituito bellezza e armonia , laddove la mano dell’occupante ha portato deserto e degrado. Dove un’oasi avrebbe restituito sacralità alla terra e avrebbe ospitato seminari e laboratori di arte, di storia, di botanica, di recupero della memoria, di  cultura, di musica, di tutto ciò che rappresenta l’identità culturale di questo popolo che Israele vuole cancellare.

Non è colpa di nessuno. E’ stato solo il destino.

La realtà si è mostrata piano piano, come un fantasma che agitava un velo con una scritta che si intuiva da un po’, ma ancora non si leggeva bene. Poi quella scritta è apparsa improvvisamente in piena luce e come un violento schiaffo ha detto al progetto in cammino di tornare ad essere sogno. Lo ha cacciato nell’angolo dei sogni proibiti, dei sogni perduti. Dei  sogni traditi.

Ibnatu Canaan non esiste più. Ora è tornata una terra qualunque. Gli obiettivi di lavoro politico, culturale, sociale che ne avrebbero fatta la “figlia” amata sono persi. Ora è solo un piccolo appezzamento semidesertico in cui forse nascerà un altro progetto. Forse – se il destino non sarà ancora così perfido – nascerà un progetto simile a quello perduto, sarebbe bello, ma non sarà più il mio.

Forse invece nascerà solo una villetta privata. O forse, forse, chissà….

Torno in Italia con l’amarezza di essere stata tradita dalla realtà. Una realtà che è fatta anche di rigidità culturali, di frustrazioni e di scelte dovute all’infame occupazione militare che ingabbia le anime e i corpi che vogliono libertà. Una realtà che comunque ha schiacciato per sempre il sogno contro cui ha lottato con durezza e, purtroppo, ha vinto.

Altri progetti mi riporteranno in Palestina, altri sogni di bellezza per un popolo che il mondo ha abbandonato sotto le grinfie di Israele e che sta scoppiando e implodendo nello stesso momento.

E Ibna resterà nella teca delle cose belle ma impossibili su cui ogni tanto tornerà la memoria, accarezzandola con un po’ di malinconia, e sorridendo con un filo di tristezza al ricordo di quei giorni magici che le avevano dato il nome.un-oasi-per-ricominciare-an-oasis-to-restart

La vita è dinamica, e il destino arriva come un tornado che combina e scombina ogni cosa! È andata così, zaino in spalle e si riparte.

Una sola cosa il destino non può fare: distruggere i semi che sono finiti nella terra. Prima o poi germoglieranno.20160311_174139

Roma, 7 ottobre 2016